di Massimo Franco.
«No, non credo che la globalizzazione si fermerà. L’innovazione scientifica è un fenomeno globale. Curare il cancro, sradicare la malaria e la poliomielite, combattere l’Hiv sono attività globali. Gli scienziati collaborano a livello globale più di quanto sia mai accaduto prima. E l’Europa dovrebbe essere orgogliosa del contributo dato ai Paesi poveri». Bill Gates si dondola avanti e indietro sulla sedia, con le braccia conserte e la voce un po’ stridula. Elabora i suoi concetti con lentezza e chiarezza inesorabili. Fa così per essere concentrato al massimo: lo faceva anche quando era un piccolo genio di otto anni, irrequieto e affamato di conoscenza. Giacca a quadri, camicia color prugna senza cravatta, scarpe nere di cuoio intrecciato, passa da una riunione all’altra. E sprizza positività.
L’attività filantropica
In un’ora di conversazione, in una Parigi presa più dagli Europei di calcio che da Brexit, Gates si è confermato un «ottimista impaziente». D’altronde ha chiamato così anche la statua-simbolo in mostra all’ingresso del quartier generale della Fondazione, nella sua Seattle. È inutile cercare crepe nelle sue certezze di progresso, né concessioni ai luoghi comuni che sembrano imperare in Europa e perfino negli Stati Uniti sull’immigrazione come male e minaccia alla stabilità occidentale. Il vero attentato al mondo nei prossimi dieci anni, nella sua visione, non è una guerra ma un’epidemia. Per questo la fondazione creata dall’inventore di Microsoft, e intitolata a lui e alla moglie Melinda, investe miliardi di dollari per combattere le malattie nei Paesi africani più poveri, e per promuovere l’istruzione. È stato definito «filantro-capitalismo». Di certo è filantropia, sostenuta da mezzi finanziari potenzialmente illimitati, e da un’organizzazione in grado di orientare governi nazionali e istituzioni internazionali.
Signor Gates, la sua Fondazione chiede aiuto anche all’Italia per i Paesi poveri dell’Africa. In un momento di crisi e di paura, come si fa a convincere l’opinione pubblica che è conveniente, oltre che giusto?
«Intanto per una questione morale, che a mio avviso è la più forte. Esiste un problema umanitario di un’area del mondo nella quale le popolazioni non hanno cose che in Occidente sono date per scontate. L’altro è che l’Italia si trova alla frontiera con l’Africa. Aiutare questi popoli nei loro Paesi, renderli autosufficienti, ridurre il tasso di crescita demografica che è altissimo, ridurrebbe anche la pressione migratoria».
Lei vede minacce alla stabilità dell’Europa nei prossimi anni provenienti dall’interno o dall’immigrazione?
«Non vedo un rischio di conflitto che minacci l’Europa per i prossimi dieci anni. Se debbo pensare a che cosa potrebbe destabilizzare il mondo, penso semmai a qualche epidemia capace di uccidere anche dieci milioni di persone. Questa è la prospettiva più rischiosa che intravedo. Sia chiaro: in dieci anni saremo più preparati ad affrontare una simile emergenza. I governi e le organizzazioni non governative stanno lavorando per minimizzare il rischio. Non voglio spaventare la gente. Ma dobbiamo essere preparati ad affrontare un problema del genere. La guerra è il passato».
La guerra è il passato? Lo pensa davvero?
«Ci sono i Balcani e l’Ucraina, certo. Ma non vedo situazioni destabilizzanti. In alcune aree dell’Africa certamente ci sono ancora conflitti violenti. Occorreranno circa trent’anni per mettersi alle spalle le guerre anche lì».
Si ha sempre più l’impressione che l’immigrazione sia un problema strutturale, non un’emergenza. E questo crea paura e ostilità in Europa. Lei è in grado di prevedere quanto durerà questo esodo in direzione del nostro continente?
«In Medio Oriente, mi riferisco alla Siria e allo stesso Iraq, si tratta di un esodo alimentato dalla guerra. Ritengo che nello spazio di cinque, dieci anni dovrebbe esaurirsi. Per quanto riguarda l’Africa, credo che occorrerà un ventennio almeno affinché si creino condizioni tali da scoraggiare le persone a cercare opportunità in luoghi diversi dai loro Paesi. Ma la situazione in Africa sta migliorando. Il caso dei rapporti tra Stati uniti e Messico è molto istruttivo».
In materia di immigrazione?
«Esatto. C’è stato un momento in cui l’esodo di messicani negli Stati Uniti era massiccio. Poi, grazie all’aiuto finanziario offerto al Messico, il fenomeno si è riassorbito. E negli ultimi tre o quattro anni l’immigrazione dal Messico negli Usa si è praticamente azzerata, perché si sono create condizioni migliori per chi vive in quel Paese. D’altronde, è impressionante lasciare il posto dove sei cresciuto, dove ci sono la tua cultura e la tua lingua, per andare altrove».
Ma l’Africa è molto diversa dal
Messico, non crede? Ci sono interlocutori nei governi africani? Controllano il loro territorio? Spesso sono Paesi destabilizzati, con governi fragili se non falliti.
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