di Giulia Crivelli.
Nel gennaio del 2005 l’Economist dedicò una copertina e una lunga inchiesta alla Csr, la corporate social responsibility, un’espressione che era stata inventata circa dieci anni prima e che serviva da grande ombrello per indicare le “buone pratiche” sociali e ambientali di un’azienda, specie di quelle più grandi. Il settimanale britannico avanzava una serie di dubbi sull’impegno delle imprese in ambiti che non fossero facilmente misurabili o strettamente legati al core business e liquidava la Csr come, nella maggior parte dei casi, «un trattamento cosmetico».
Ci sono voluti più di dieci anni, ma forse la sostanza che secondo l’Economist la Csr non aveva adesso c’è. Non solo: ci sono metodi per misurarla e in molti Paesi è prassi diffusa – se non addirittura richiesta dalla legge –la redazione di un bilancio sociale e ambientale. Non ci sarebbe da stupirsi se il settimanale, noto per una lucidità di analisi che sfiora il cinismo, avanzasse presto nuove spiegazioni per il passaggio dalla forma alla sostanza. La principale potrebbe essere, semplicemente, la domanda: i consumatori più giovani, i Millennials (nati tra il 1980 e il 2000) mettono la Csr e la sostenibilità al centro delle scelte di acquisto.
Sono tanti ormai gli studi a dimostrarlo: i più recenti sono stati presentati in chiusura di Milano Moda Uomo pochi giorni fa, durante il convegno “Crafting the future of fashion” organizzato dalla Camera della moda e dal suo presidente Carla Capasa, che ha messo la sostenibilità tra le priorità del suo mandato, in piena sintonia con Claudio Marenzi, presidente di Sistema moda Italia, per arrivare a una sostenibilità di filiera del tessile-moda-abbigliamento.
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