Negli ultimi tre anni gli uomini hanno dovuto fare una drastica cura dimagrante in termini di posti di comando. Almeno nell’area pubblica. Hanno, infatti, lasciato più di 8.100 posti sui quasi 20 mila che detenevano nel 2014 nelle società non quotate partecipate dallo Stato e sue articolazioni. Hanno perduto oltre 4.500 posti nei consigli di amministrazione e oltre 3.500 nei collegi sindacali. È il dato più rilevante del monitoraggio sull’applicazione della legge Golfo-Mosca (la normativa che ha introdotto le quote di genere) appena pubblicato dal Dipartimento per le Pari opportunità a conclusione della stagione dei rinnovi degli organi sociali del 2017.
Posti persi dagli uomini perché erano gli uomini a detenerli in una sorta di monopolio. Queste «poltrone» non si sono trasferite tout court alle donne, seppur il peso femminile in queste società sia aumentato in modo notevole, raggiungendo il 30,9% (considerando consigli e collegi sindacali insieme) grazie alla legge Golfo-Mosca. La forte diminuzione maschile è, infatti, da attribuire a un complesso di cause: la legge di Stabilità del 2015, che ha imposto la razionalizzazione delle partecipazioni; la legge sulle quote di genere; e, infine, il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica del 2016 che ha previsto «di norma» il ricorso all’amministratore unico. Nei tre anni considerati, dunque, il numero delle società pubbliche è sceso del 20% (da quasi 4mila a 3.100), mentre le aziende che hanno sostituito il cda con l’amministratore unico sono oggi il 40% del totale (erano il 29% nel 2014). Capo-azienda che è maschile nel 92% dei casi.
E qui si entra nel merito della Golfo-Mosca. I dati del monitoraggio dicono che la normativa sulle quote sta dando i suoi risultati ma mostrano anche la «fatica» di farla accettare. Il 30,9% di donne presenti nei cda e nei collegi sindacali delle aziende pubbliche è, infatti, la media del 26,2% di donne nei consigli di amministrazione, del 32,1% dei sindaci effettivi e del 40,5% dei sindaci supplenti.
Notevoli le differenze tra le regioni, soprattutto per quanto riguarda i consigli. Il record negativo è della Basilicata, che non raggiunge il 10% (per la precisione 9,7%) di donne nei cda, seguita da Calabria (13,1%), Sicilia (13,9%) e Campania (18,7%). La regione più virtuosa è il Friuli Venezia Giulia con il 31,1%. La seguono il Lazio (29,8%), l’Emilia Romagna (29,7%) e la Lombardia (29,6%). Sopra al 29% anche Valle d’Aosta e Veneto (29,4% ciascuna).
Nel 2014 — momento del primo monitoraggio — le donne rappresentavano solo il 18,3% del totale di amministratori e sindaci. C’è stato, dunque, un incremento di 12,6 punti che corrispondono a 662 professionalità femminili aggiunte. Il dato risulta «particolarmente significativo» — sottolinea il Dipartimento Pari opportunità — proprio in considerazione della forte riduzione del numero di società controllate da pubbliche amministrazioni. Allo stesso tempo, però, si evidenzia come gli amministratori unici si rinforzino come territorio maschile, visto che la percentuale femminile è inferiore al 2014 pur in presenza di un forte aumento di questa figura.
Nei tre anni sono stati avviati 331 procedimenti amministrativi e in 11 casi l’organo sociale è stato dichiarato decaduto.