La frase “E’ di tutti, dunque non è di nessuno” ha avuto da sempre grande successo nell’Italia dello scaricabarile e dell’individualismo spinto, originando comportamenti di indifferenza sociale o di appropriazione indebita, a seconda dei casi. Dagli appartamenti occupati nelle case popolari alla devastazione delle zone verdi lasciate a se stesse, la casistica è ricca di storie in cui alla presa in carico di ciò che è abbandonato si è preferita la via della noncuranza, del degrado e dell’oblio.
Ora qualcosa sta cambiando, per scelta e per necessità. Dalle grandi città ai piccoli paesi, sul territorio crescono piani di rigenerazione sociale. Non passa giorno, infatti, che non arrivi notizia di buone pratiche sul fronte dei cosiddetti “beni comuni”: immobili, ferrovie, fabbricati, boschi che dal nulla diventano improvvisamente patrimonio per la comunità, pronta a mobilitarsi per salvare realtà altrimenti a rischio.
È uno scenario inedito per la penisola, che ancora non ha fatto un vero e proprio censimento delle opere inutilizzate che pure servirebbero agli italiani, tanto più in una fase storica come questa in cui si assiste a un silenzioso ripiegamento della proprietà privata. Sono storie di cittadini che si attivano, di gruppi di pressione che si autorganizzano e perseguono interessi generali, di cooperative e associazioni che non ragionano più semplicemente per logiche d’appalto o di concessione, ma hanno l’ambizione di operare in una dimensione paritetica rispetto al pubblico, non essendo “altro” rispetto alle comunità da cui provengono.
Storie che, in sintesi, hanno un impatto sociale sul territorio, perché insistono sulla coscienza civile dei suoi abitanti.