Anche il Pil deve adeguarsi alle esigenze dell’economia sostenibile. La misurazione della crescita di un sistema economico non può continuare a basarsi su criteri puramente quantitativi figli di un’idea di sviluppo come pura accumulazione. È lo stesso limite concettuale per cui, ancora una quindicina di anni fa, in casa Enel, tanto per fare un esempio nostrano, vedevano il tema del risparmio energetico come un nemico implacabile della crescita del fatturato. Poi per fortuna le cose sono cambiate. Nelle utility. Ora è invece tempo di riscrivere le formule che misurano l’economia ed èancora più difficile. Ci si prova da anni, a tutti i livelli (dall’Ocse al Wwf) e in tutto il mondo a trovare delle alternative al pil. Solo negli ultimi anni si sono incontrati il Gpi, Genuine Progress Indicator; il Better Life Index, messo a punto dall’Ocse; un italianissimo Bes, Benessere Equo e Sostenibile, sviluppato dall’Istat e dal Cnel; un Gnh, GrossNational Happiness.
Perfino no la Repubblica popolare cinese aveva tempo fa ideato il Prodotto Interno Lordo Verde, un indice di sviluppo economico che tiene conto delle conseguenze ambientali dello sviluppo economico e di cui è forse effetto la nuova politica industriale e diplomatica di Pechino più attenta a temi come l’inquinamento delle città e il riscaldamento globale. Ma nessuno di questi è riuscito finora a scalzare il vecchio Pil. Più successo potrebbe allora avere il test realizzato dall’Ufficio Studi di Confcommercio che tiene il Pil saldamente al centro dell’analisi macroeconomica, ma introduce dei correttivi: non dodici, come il Bes di Istat e Cnel che dovrebbe avere il battesimo del fuoco a metà febbraio prossimo con la sua prima adozione ufficiale in un documento governativo, ma solo tre per il suo “Pil equilibrato”. Sono: le emissioni di CO2, il numero di morti in incidenti stradali e sul lavoro e il numero di cittadini in stato di povertà assoluta.