Uno studio di qualche anno fa aveva evidenziato come una differenza di salario all’ingresso nel mondo del lavoro di 5mila euro lordi annui fra due colleghi, a favore dell’uomo, in assenza di promozioni o aumenti ad personam, era destinata a crescere a oltre 14mila euro, assumendo come ipotesi un aumento di entrambi gli stipendi del 3% annuo. Forse non scandalizza né la differenza di 5mila euro a inizio carriera, né quella di 14mila a fine carriera, ma certo fa riflettere la somma delle differenze salariali anno per anno che al momento della pensione danno una cifra di 316mila euro. Vale a dire la possibilità o meno, ad esempio, di comprarsi una casa.
Altra questione, poi, è la reale valutazione delle differenze salariali. Da sempre l’Italia appare virtuosa rispetto agli altri Paesi, perché dalle statistiche risulta abitualmente un gap di salario complessivo (non spacchettato per livelli di inquadramento) fra uomini e donne molto contenuto. Si prenda, ad esempio, l’ultimo studio della piattaforma tedesca per carriere in ambito tecnologico Honeypot, secondo la quale il Gender pay gap italiano si aggira attorno al 5,5%. Niente se confrontato al 19% del Regno Unito, al 18% circa degli Stati Uniti, al 15,8% della Francia e al 15% della Spagna, solo per fare alcuni esempi. Ma c’è un però.
Partiamo dalla definizione del dato per capire come viene composto: il Gender pay gap è, nella definizione di Eurostat, la differenza tra i salari orari lordi medi di uomini e donne espressi in percentuale del salario maschile. Si tratta di un indicatore denominato «grezzo» o «non aggiustato» o «non rettificato», specifica la professoressa Luisa Rosti dell’università di Pavia (si veda articolo accanto) che sottolinea come sia composto da una parte “spiegabile” e una “non spiegabile”. Perché grezzo? Perché la differenza nella retribuzione media oraria rappresenta solo una parte della disparità di retribuzione complessiva tra uomini e donne. Se considerassimo la retribuzione media annua invece della retribuzione media oraria, il differenziale si allargherebbe per il minor numero di ore lavorate della componente femminile. E il differenziale si allarga in misura anche maggiore se consideriamo il basso tasso di occupazione delle donne in Italia.
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