Non è il gesto di follia, il raptus, l’impulso improvviso di un folle. La violenza contro le donne riguarda tutti e tutte. È un fenomeno stabile nel tempo, trasversale, pervasivo, che ha radici profonde nella nostra cultura. Ma proprio perché punisce le donne in quanto donne, non può essere considerato ineluttabile.
È la punta di un iceberg fatto di stereotipi, discriminazioni e squilibri: nel lavoro formale e informale, nelle retribuzioni, nella partecipazione alla vita pubblica e sociale. Un gap che spinge il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a raccomandare di «rafforzare nella società la cultura della parità non ancora pienamente conseguita» e a plaudere alla campagna di Rai Radio 1 “No women no panel”.
La pandemia ha agito da amplificatore, aggiungendo isolamento a isolamento: il lockdown ha trasformato la casa di tante in una trappola. Le ha difese dal coronavirus, ma le ha lasciate in balia dei partner.
Nei primi dieci mesi dell’anno, secondo i dati Eures, sono stati commessi 91 femminicidi, una donna uccisa ogni tre giorni. Durante il confinamento, secondo il report riferito ai primi otto mesi dell’anno del Servizio analisi criminale del Dipartimento di Pubblica sicurezza del Viminale, i reati “spia” della violenza di genere (atti persecutori, maltrattamenti contro familiari e conviventi, violenze sessuali) sono diminuiti sia rispetto allo stesso periodo del 2019 (da 3.319 a 2.438 a marzo e da 3.126 a 2.524 ad aprile) sia rispetto a gennaio e febbraio.
Finito il lockdown, da maggio, hanno ripreso a salire. Le donne sono la stragrande maggioranza delle vittime. E non c’è dubbio che il calo rilevato in lockdown sia dipeso dall’impossibilità di chiedere aiuto. La tragedia della doppia prigione.