La partecipazione al lavoro femminile è pari, in Italia, al 47 per centro contro una media di circa il 60 per cento nei 28 paesi dell’Unione Europea. Peggio di noi solo la Grecia. In Germania è il 70 per cento in Svezia e si arriva al 74 per cento. In compenso le donne italiane lavorano in casa il doppio degli uomini (circa 40 ore contro 20 per settimana). Sommando il lavoro in casa e fuori, la differenza totale è di mezz’ora in più per le donne. Sempre poco, ma moltiplicato per 365 giorni l’anno sono circa 23 giorni lavorativi di 8 ore.
Un’enormità e lo riconoscono anche i compagni delle donne intervistate. I dati sono tratti da una nostra indagine per Valore D e valgono non solo per un campione rappresentativo della popolazione, ma anche per un campione di donne manager. Quindi anche le donne con elevato livello di istruzione mediamente lavorano molto in casa mentre i loro compagni, indipendentemente dal livello di istruzione, non le aiutano quasi per nulla nei lavori domestici.
Una divisione più equilibrata dei compiti, non spreca il capitale umano delle donne quasi solo in compiti domestici e non assorbe quello degli uomini interamente nel mercato. I pardi non sono meno importanti delle madri per i figli e la tradizionale divisione “donne a casa – uomini in azienda” oggi non è più vantaggiosa, se mai lo è stata.
Come rimediare al nostro ritardo? Una decina d’anni fa avevamo suggerito una proposta di facile attuazione: ridurre la tassazione sul (solo) lavoro femminile come “azione positiva” (affirmative action) da sperimentare fino al raggiungimento dell’obiettivo di una sufficiente parità di genere sia nei tassi di partecipazione sia nelle prospettive di retribuzione e di carriera. In questo modo, le famiglie avrebbero un incentivo a far lavorare le donne relativamente di più nel mercato e gli uomini di più a casa.
Molti studi dimostrano che una riduzione anche modesta delle aliquote sul redditto femminile induce un forte aumento dell’offerta di lavro delle donne, facendo perdere allo Stato poco gettito fiscale dato l’aumento consistente della basi imponibile. Quindi questa riduzione delle aliquote costerebbe relativamente poco e potrebbe essere compensata con la riduzione di quei trasferimenti alle famiglie che costano tanto e hanno effetti limitati o addirittura controproducenti perché si limitano ad alleviare i sintomi, senza contribuire a eliminare le cause delle disparità di genere.