La nuova disciplina del terzo settore, benché abbia visto la luce dopo oltre tre anni di confronto dentro e fuori dalle aule parlamentari, fa discutere come e più di prima. Da quando, a inizio agosto, sono entrati in vigore gli ultimi decreti attuativi della legge delega 106/16, reazioni e valutazioni degli addetti ai lavori hanno sistematicamente oscillato tra la soddisfazione per un insieme di provvedimenti che restituiscono un’identità precisa al non profit e la preoccupazione per le incognite, le complicazioni e i “buchi” normativi.
Per inquadrare correttamente il dibattito in corso vanno tenute presenti almeno due condizioni specifiche di questa riforma.
La prima è che la galassia degli enti senza fini di lucro contiene al proprio interno sistemi molto diversi sotto ogni punto di vista, per cui l’obiettivo di costruire una cornice univoca, in particolare con il Codice del Terzo settore, appariva ed è tanto ambizioso quanto arduo. La seconda è che, anche dopo l’entrata in vigore dei decreti di mezza estate, la concreta attuazione delle disposizioni resta appesa alla futura emanazione di ben 42 provvedimenti regolamentari, per cui i giudizi risentono delle conseguenti cautele.
Si aggiunga che, in qualche passaggio, la distrazione del legislatore ha creato gravi effetti indesiderati, come nel caso della disciplina delle erogazioni liberali, che ha visto l’abrogazione delle agevolazioni note come “più dai, meno versi” prima che scattino le nuove regole sulle donazioni, per cui almeno 50mila organizzazioni guardano con legittima preoccupazione alle campagne di raccolta fondi dei prossimi mesi, tradizionalmente le più importanti dell’anno.
Questo insieme di fattori ha creato un prolungato “effetto cantiere” che spiega, almeno in parte, i toni e il clima del confronto all’interno del non profit.