Da almeno dieci anni, con sempre maggiore convergenza via via che si dispiegavano gli effetti globali della crisi finanziaria segnata dal fallimento della Lehman Brothers nel 2008, i Paesi più sviluppati e le istituzioni internazionali hanno posto in agenda il passaggio dal «welfare state» alla «welfare society» come snodo fondamentale per assicurare risposte ai bisogni sociali emergenti in un contesto di risorse pubbliche stagnanti, quando non decisamente calanti.
La ragione di questa necessaria transizione è di comune evidenza empirica e non ha bisogno di particolari richiami a teorie economiche. I Governi e le autorità pubbliche hanno dovuto via via limitare le ambizioni di copertura universalistica dei bisogni sociali, arretrando a presidiare le fasce di volta in volta definite come più fragili o deboli. Contemporaneamente, però, queste fasce si sono dilatate per effetto della crisi, fino a risucchiare ampia parte della classe media, mentre grandi fenomeni strutturali, dalla curva demografica al fenomeno delle migrazioni, hanno messo ulteriormente alle corde le politiche sociali.
Il risultato di questa evoluzione è che oggi nessuno, quanto meno nel mondo occidentale, può più sostenere che le risposte ai bisogni sociali devono provenire dalla sola mano pubblica.