Nella sfida intrapresa dall’Italia con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) la vittoria non è scontata. Gli obiettivi, investimenti e riforme, si raggiungono solo insieme. E del resto la stessa grande strategia europea che sottende il piano italiano si realizza soltanto se perseguita nella sua completezza: sicché si può dire che sostenibilità e inclusione non esistono l’una senza l’altra. È quindi possibile che la battaglia della transizione ecologica possa essere vinta senza la transizione sociale? E chi si fa carico della questione?
Anche se gli investimenti nell’innovazione sono necessari, non sono sufficienti. Perché nulla di profondamente politico si risolve in automatico.
Esg (Environmental, social and corporate governance) è la sigla con cui si stanno confrontando le imprese, piccole e grandi, che vogliono dirsi contemporanee. Ambiente, inclusione e meritocrazia, politiche di diversità sono all’ordine del giorno nelle società benefit come nelle SpA. Perché ormai anche nella finanza gli investitori scelgono di mettere un gettone laddove c’è una dimostrata propensione alla sostenibilità, oltre che all’etica. Nonché – lo affermano i gestori patrimoniali – prediligono le società che promuovano la gender equality (Ge). I risultati di una ricerca Robeco hanno mostrato l’esistenza di un rapporto positivo con la redditività aziendale quando l’impresa ha più del 20% di donne nel CdA, più del 30,2% di donne a livello manageriale e più del 44,7% di donne nell’organico complessivo. La ricerca mostra anche che una maggiore partecipazione femminile è legata a una migliore stabilità degli utili, ingrediente essenziale per la sostenibilità a lungo termine. In pratica, nelle imprese di con più del 30,2% di donne dirigenti c’è una minore volatilità degli utili rispetto alle altre.
Quello che non sapevamo è che questa consapevolezza ha fatto sì che sempre più gestori selezionino imprese in cui i parametri di Ge e Esg hanno fatto salti in avanti. È dal 2018 che accade sul serio, ma nel 2021 c’è stata una svolta. E tuttavia, se sostenibilità e inclusione hanno camminato di pari passo nel mondo della finanza, come previsto Sustainable development goals dell’Onu in cui di fatto la gender equality è parte integrante degli obiettivi, perché le scelte politiche, rispetto a questi temi, sono slegate, non assimilabili, e spesso in competizione?
Se le società benefit e le B Corp per essere sostenibili e produrre un rapporto annuale d’impatto devono rispondere a delle logiche trasversali di inclusione, perché ancora oggi non abbiamo una visione politica trasversale rispetto a questi temi? In ogni partito politico il responsabile di politiche di genere parla con il responsabile dell’ambiente? E chi si occupa di istruzione e di scuola, perché non si può farlo con chi si occupa di sostenibilità? Il ministero delle Pari opportunità ha un ruolo all’interno delle scelte miliardarie delle infrastrutture prossime venture, e nel ministero per il Sud?
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