E infine volevo dire ai miei compagni maschi che se ci impegniamo, possiamo anche noi avere voti alti e battere le femmine». Terminava così il compito in classe di un bambino di quinta elementare, che doveva commentare gli articoli apparsi sui giornali per l’8 marzo. Di tutti i dati sciorinati per l’occasione, quello che lo aveva più colpito è che le ragazze ottengono risultati migliori a scuola rispetto ai ragazzi. In una frase il bambino ha dimostrato sicurezza nelle proprie capacità e in quelle dei compagni, voglia di reagire e senso di appartenenza al suo genere. Tre caratteristiche che fanno la differenza se messe in campo nel mondo del lavoro.
In occasione dell’otto marzo i dati sulla situazione delle donne, soprattutto rispetto alla loro partecipazione all’economia del Paese, sono davvero molti e spesso negativi. Se la reazione fosse quella del bambino di quinta elementare forse lo sviluppo positivo della situazione avrebbe un’accelerazione. Lo dimostra, ad esempio, il dato della percentuale di donne che siedono nei board delle società quotate e partecipate pubbliche in Italia: c’era un problema di asimmetria, è stata proposta un’azione positiva sostenuta da uomini e donne (legge 120 del 2011) e il risultato è che l’Italia è stata proiettata in pochi anni ai vertici europei per presenza femminile nei board (dal 7% al 30% nei cda delle quotate di Piazza Affari in cinque anni). Certo le quote di genere sono una soluzione temporanea e di shock culturale che non è possibile applicare ad altri ambiti. Come nel caso della esigua presenza delle donne nelle posizioni manageriali, ad esempio. In Italia, secondo uno studio di Grant Thornton, nel 2017 la percentuale delle donne nel top management è pari al 27% (contro il 25% globale) in calo rispetto al 29% dell’anno precedente. «Lo studio ha rilevato che l’incidenza percentuale delle donne in ruoli apicali ha un certo grado di staticità, dovuto essenzialmente a ragioni culturali. Uno dei freni principali è costituito dalle politiche aziendali adottate per supportare la crescita manageriale delle donne; questi si sostanziano – di fatto – più in un’attività di “mentoring” che non di “sponsoring”, ossia in una serie di iniziative che si incardinano in un rapporto gerarchico (il mentor che fornisce consigli al mentoree), piuttosto che in un rapporto funzionalmente paritario che porta al coinvolgimento diretto per determinarne la crescita» commenta Simonetta La Grutta, partner di Bernoni Grant Thornton.
Gli studi sull’esigua presenza femminile ai livelli apicali hanno scandagliato ogni causa dai pregiudizi alla necessità di conciliare lavoro-famiglia, dalla maggiore assertività maschile alle influenze culturali. Resta il fatto che di anno in anno le percentuali variano, avanti o indietro, di pochi punti percentuali e si continua a ripetere che le aziende non stanno sfruttando la metà dei talenti che hanno a disposizione. E poco incidono i singoli programmi aziendali, che pure sono preziosi, perché sarebbe necessaria un’azione coordinata che metta in campo un’alleanza pubblico- privato per fare in modo che l’economia italiana riparta. I numeri, peraltro, continuano a ribadire che sarebbe necessario, considerato che il Pil italiano resta ancora sette punti percentuali sotto i livelli del picco del 2008. E a questo si lega a doppio filo anche il problema dell’occupazione femminile inchiodata nell’ultimo decennio attorno al 47 per cento. Banca d’Italia, ancora sei anni fa, aveva stimato che se l’occupazione femminile fosse arrivata ai livelli di quella maschile il Pil sarebbe cresciuto del 7%. Giusto il divario che separa il Paese dal Pil del 2008. Non solo. Un aumento dell’occupazione femminile potrebbe avere come esito, visti i risultati in altri Paesi, l’incremento della natalità. Altra nota dolente sottolineata dagli ultimi dati Istat, secondo i quali il 2016 ha raggiunto un nuovo record negativo con nascite a 474mila.