La povertà è un’esperienza sgradevole per chi la conosce, ma è anche un virus dalle imprevedibili conseguenze per le democrazie che hanno sperimentato decenni di migliorie sociali. Qualche anno fa alcuni economisti americani cercarono di misurare scientificamente la felicità tenendo conto delle molte varianti che contribuiscono a determinarla. Giunsero alla conclusione che la singola felicità non può prescindere dalle condizioni in cui vive tutta la comunità: siamo più felici quando migliora il nostro benessere un po’ più di quello degli altri; ma anche chi ci sta attorno deve star meglio, altrimenti cominciamo a percepire ostracismo, invidia, malcontento che ci rendono insicuri e annullano il buonumore per i nostri successi.
Questa conclusione, all’apparenza banale, potrebbe spiegare ciò che sta accadendo in Italia, in Europa e Oltreoceano, scelte avventate come la «Brexit» o l’odio per alcune categorie sociali, nonché la ricerca di capri espiatori. Non è un caso che il Nobel per l’economia, quest’anno, sia stato assegnato a Richard Thaler, uno studioso che non si limita ai modelli matematici ma attribuisce grande importanza a quelli comportamentali.
Tutte le statistiche (se ce ne fosse bisogno) sono concordi nel segnalare un aumento della povertà nei Paesi sviluppati da attribuirsi alla crisi finanziaria iniziata nel 2008. In Italia con qualche accento in più. Ma sono passati dieci anni, gli indicatori economici mostrano una ripresa, eppure i livelli di povertà continuano a crescere, così come il divario tra i pochi ricchi e la moltitudine dei poveri e degli impoveriti.
Per la prima volta dal Dopoguerra i figli stanno peggio dei padri e la scala mobile sociale ha invertito la marcia: invece di salire, scende. La rivoluzione tecnologica e la globalizzazione, almeno per ora, stanno mostrando, dal punto di vista sociale, il volto peggiore, con la perdita di posti di lavoro almeno doppia rispetto a quelli creati (spesso precari e peggio retribuiti). In futuro, la tendenza deve necessariamente invertirsi: ne ha bisogno la democrazia per sopravvivere.
Perché ciò avvenga, occorre che sia la politica (è il suo mestiere) sia chi non è toccato dalla crisi contribuiscano a governare la difficile transizione. Senza condivisione del benessere, anche la ricchezza di chi ancora la possiede è a rischio. Probabilmente non ce ne rendiamo ancora conto perché i nuovi impoveriti, quella classe media non abituata agli stenti, sperando che le difficoltà siano passeggere non si vuole ancora autorappresentare.
Un esempio di cosa possano fare i «produttori di ricchezza» è stato presentato in questi giorni da A2A e da Fondazione Cariplo. Si tratta di un progetto a nostro avviso straordinario, un modello pilota per ora limitato all’energia e alla Lombardia; se esteso, potrebbe diventare un ammortizzatore sociale capace di autoalimentarsi.
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