Lo smart working, vale a dire quella modalità di esecuzioni del rapporto di impiego subordinato, sta pian piano prendendo piede nelle aziende; tuttavia le nuove forme contenute nel Ddl sugli autonomi, all’esame della commissione Lavoro della Camera – relatore Cesare Damiano, Pd, nonostante alcuni apprezzabili chiarimenti, rischiano di non favorirne, in concreto, il decollo (a discapito delle esigenze di flessibilità di imprese e lavoratori).
A richiamare l’attenzione di governo e Parlamento sulle possibili “conseguenze applicative” delle disposizioni in materia di lavoro agile è Confindustria: nella disciplina dell’orario di lavoro, per esempio, il Ddl contiene criticità in quanto, con riferimento alla durata massima della prestazione, specie per la parte svolta al di fuori dei locali aziendali, il datore rischia di “essere esposto a veri e propri profili di responsabilità oggettiva” (potrebbe infatti essere chiamato a rispondere di condotte del proprio dipendente che non è materialmente in grado di controllare).
Sarebbe meglio quindi, spiega Confindustria, equiparare, a tutti gli effetti di legge e di contratto, la giornata di lavoro resa in smart working a una giornata di “orario normale” di lavoro (la soluzione risolverebbe una serie di problemi “gestionali”). Si potrebbero, poi, individuare delle “fasce di disponibilità” ovvero dei periodi di tempo durante i quali il lavoratore “agile” si impegna a rispondere tempestivamente a mail o chiamate del datore (fuori da tali fasce invece non si potranno pretendere rispose “rapide”).
Attenzione poi, proseguono gli industriali, a non “imbrigliare” lo smart working con il ricorso a una necessaria negoziazione a livello nazionale con il sindacato (per fissare le modalità di svolgimento): già oggi le esperienze di lavoro agile esistenti nelle imprese sono nella maggior parte dei casi definite in azienda (l’auspicio pertanto è non penalizzare quei datori che stanno sperimentando forme avanzate di conciliazione vita-lavoro).