di Di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai.
Non bastano i manuali di diritto societario per fare nuove imprese ibride. Non solo perché si tratta di organizzazioni che sfidano le suddivisioni classiche – tra pubblico e privato, tra lucrativo e non lucrativo, tra individuale e collettivo – intorno alle quali sono stati costruiti assetti di governance e modelli di gestione che riempiono i toolkit manageriali.
Ma soprattutto perché occorre comprendere la direzione e la portata di quelli che leggiamo come vettori di cambiamento profondo a livello economico e sociale e che si apprestano a definire la nuova architettura della nostra società.
Driver che diventano pilastri: come le persone escluse dal mercato del lavoro e dal welfare che nel giro di pochi anni definiscono, loro malgrado, una componente strutturale e in alcuni contesti maggioritaria della società.
Oppure come il crescente numero di immobili abbandonati e sottoutilizzati che tratteggiano lo skyline dei paesaggi urbani e delle aree interne, antenne non solo del degrado ma del fallimento di modelli di sviluppo, sia pubblici che privati.
E ancora come un tessuto imprenditoriale che da una parte perde preziosi asset in settori chiave e si ripropone in altri ambiti come i servizi di terziario sociale, facendo però ancora fatica a generare risultati in termini di innovazione, di produzione di ricchezza e, non da ultimo, di mobilità sociale.
Sono queste alcune delle sfide sociali che richiedono di elaborare nuove risposte nell’alveo dell’innovazione sociale.
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