Comunque la si voglia giudicare quanto a risultati, la Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici ha avuto l’indubbio merito di riportare il tema della sostenibilità al centro dell’attenzione dei grandi decisori mondiali. Il livello di attenzione, di condivisione, di responsabilità sono di gran lunga cresciuti e, quanto meno nella capacità di alert, si sono rafforzate le cinghie di trasmissione con e tra i diversi stakeholders, in primis attori pubblici, organizzazioni della società civile e mondo delle imprese.
Le politiche di sostenibilità, però, non hanno solo problemi di identificazione, pianificazione strategica e realizzazione, ma anche di rendicontazione. E sotto questo profilo, se è indubbio che il Csr Reporting è ormai la regola tra i grandi gruppi globali, è altrettanto vero che la qualità non sta migliorando in modo sostanziale e, per di più, la crescita è trainata dall’area asiatica, dove sono recentemente entrate in vigore norme di legge ad hoc. Il che significa che a comandare il gioco è la regulation più che l’impulso autonomo delle società.
Ad affermarlo è il Rapporto biennale del network Kpmg sul “Corporate Responsibility Reporting” delle prime 250 aziende mondiali (G250), pubblicato con indubbia tempestività alla conclusione dei lavori della Conferenza di Parigi. L’analisi è tra le più accreditate in materia, sia perché l’arco temporale della ricerca conta ormai oltre vent’anni di rilevazioni (la prima indagine risale al 1993), sia perché le 250 multinazionali classificate hanno una reale, rilevante influenza sul trend globale e rappresentano la scrematura di un ben più vasto campione di 4.500 società di 45 Paesi, tra cui l’Italia.
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