Dobbiamo imparare molte cose, soprattutto l’uso etico e responsabile della grande massa di dati disponibili.
Il capitalismo rappresenta la fonte principale della prosperità della storia umana moderna eppure oggi è necessario un suo profondo ripensamento che ponga un argine alla crescente disuguaglianza e contribuisca a salvare il pianeta.
Da parecchi anni un nutrito gruppo di studiosi ha rispolverato una nozione illuminata di imprenditore e, più in generale, di attore economico, non finalizzato solo al calcolo utilitaristico e individualista. Questa visione — associata al termine «sostenibilità» e che era già presente anche nei primi scritti di filosofi morali e studiosi dell’impresa della prima e seconda rivoluzione industriale — è nel tempo stata soverchiata dal liberismo spinto che ha prodotto la globalizzazione che oggi conosciamo. Seppur sia recentemente divenuta più popolare anche tra policymaker e manager, allo stato attuale rappresenta più un auspicio che un mainstream vero e proprio. Si pensi all’importanza e all’inclusione dei portatori di interesse dell’impresa rispetto agli azionisti nel definirne gli obiettivi e l’operato. Nonostante sia spesso invocata, nella realtà operativa è spesso evanescente — a riprova, basti guardare banalmente alla composizione dei consigli di amministrazione di gran parte delle imprese del mondo occidentale volti a rappresentare i soli azionisti e nessun altro stakeholder. Si pensi anche all’impegno di molte istituzioni volte a produrre bilanci sociali e di sostenibilità per dimostrare il loro buon rapporto con il sociale e l’ambiente: questi ultimi sono frutto dello sforzo, sì innovativo, ma artigianale, delle singole aziende, senza chiare linee guida che ne certifichino la effettiva bontà che possa essere adeguatamente valutata dai mercati.