Il mercato dei servizi di Welfare Aziendale (WA), come noto in forte sviluppo, ha un nuovo centro di propulsione: il Terzo Settore. Anche se con qualche ritardo ed anche se ancora riferibile alle imprese sociali più organizzate, questa constatazione non poteva che essere confermata dai fatti perché non era pensabile che proprio chi “fa welfare” restasse fuori da una partita sempre più importante sul piano sociale e collettivo. E anche di business.
Se il Welfare State ogni anno vede restringersi le maglie dei finanziamenti pubblici e quelle delle griglie di accesso ai servizi, nel tentativo di contenere la spesa sociale (invece di ricalibrarla in considerazione dei mutati e più variegati bisogni che la società esprime), parallelamente, ogni anno, un numero crescente di lavoratori e di famiglie riesce a disporre di interventi di welfare integrativo, di tipo aziendale privato, con i quali le imprese intendono migliorare le dinamiche vita-lavoro dei propri dipendenti. Certo: in tal modo si allargano delle disuguaglianze (tra chi lavora e chi un lavoro non ce l’ha; tra chi lavora in aziende welfare oriented e chi no), ma, almeno in parte, si colmano anche delle lacune.
Il WA non è paternalismo, sia ben chiaro: per le aziende è people strategy, ossia una “leva” sulla quale agire nel quadro della loro complessiva strategia. Ma è anche altro, almeno per le più “civili” tra esse: come la ricerca di una reciprocità che richiama logiche di welfare generativo e dinamiche di maggiore capacitazione delle persone.
La realtà più vicina al welfare, anche a quello aziendale, è quella espressa dal Terzo Settore. Il suo impegno quotidiano nell’erogazione dei servizi alla persona, in apposite strutture o a domicilio, ne fa quasi per definizione l’interlocutore naturale per la ricerca di soluzioni e risposte ai bisogni espressi dalle popolazioni aziendali